martedì 25 maggio 2010

Local disutility

In inglese, con il termine "local utility", che letteralmente significa "utilità locale", si intendono tutte quelle aziende partecipate da un ente pubblico. In Italia corrispondono alle famose "municipalizzate", anche se, viste le condizioni economiche in cui versano, sarebbe più corretto definirle "local disutility".
La prima legge che ne disciplinava la costituzione risale al 29 marzo 1903. La legge Giolitti (dal nome del suo firmatario) stabiliva le norme per l’assunzione diretta dei servizi da parte degli enti locali e dettava le regole per la costituzione di quelle che diventeranno le “attuali società partecipate”.
Quella legge rappresentò il “big bang” dal quale nacque l’universo delle cosiddette “municipalizzate” che continua inesorabilmente ad espandersi. Attualmente i dati parlano di un vero e proprio business (tutt'altro che economico) per la classe politica.
Il peso sulle economie regionali non è molto rilevante in percentuale al Pil, ma si calcola che a livello nazionale le circa 434 società partecipate da Regioni diano occupazione a oltre 266mila persone. Da questo punto di vista, a primeggiare, sono le regioni del Sud (Campania in testa) peraltro quasi tutti in perdita, mentre il Trentino Alto Adige e il Veneto sono le regioni più “virtuose” che riescono a mantenere costi del personale accettabili e a ottenere leggeri utili.
Il Governo Prodi aveva previsto una norma che interrompesse il proliferarsi di aziende municipalizzate e vietava agli enti locali di costituire società senza che fossero effettivamente necessarie al perseguimento di precise finalità istituzionali. La norma prevedeva anche la dismissione delle quote in quelle aziende che non rispondevano ai requisiti precedenti. Purtroppo, come spesso avviene, la norma fu soggetta a rinvii e proroghe, lasciando inalterato il sistema preesistente.
Spesso accade che l’esistenza di società pubbliche non trova una giustificazione né dal punto di vista economico, né da quello dei servizi ai cittadini. Anzi, la loro presenza in determinati settori compromette la libera concorrenza, contribuendo alla generazione di diseconomie di mercato.
La creazione o il mantenimento di una “partecipata” è dovuto a vari motivi. Eliminando i casi in cui è reso un servizio reale ai cittadini, gli altri rispondono a necessità politiche. Tramite queste imprese si possono aggirare i limiti alle assunzioni che le amministrazioni locali devono rispettare per contenere il debito pubblico. Inoltre si possono offrire posizioni di prestigio a politici “trombati” (assicurandogli lauti stipendi) cui i partiti devono riconoscenza. Considerando che la maggior parte di queste aziende non genera reddito che giustifichi gli investimenti fatti e che spesso non offrono ai cittadini dei servizi sufficienti, la reale motivazione che sta dietro all’espansione di questo fenomeno è (neanche a dirlo) il “clientelismo”. Durante le campagne elettorali, non ci sono promesse più efficaci di quelle relative ad un posto di lavoro. Questo soprattutto per le classi sociali più deboli, come padri di famiglia senza occupazione e giovani.
Il fenomeno è concentrato soprattutto nel Mezzogiorno, in cui il disagio sociale porta alla disperata offerta del proprio voto o di quello dei propri familiari in cambio della speranza (spesso vana) di ottenere una sistemazione da “qualche parte”.
Il circolo vizioso che ne scaturisce porta queste aziende a essere “riempite” di personale (in alcuni casi la relativa spesa supera il 70% dei costi totali) e ad essere perennemente sottocapitalizzate. Tutto ciò si ripercuote sui cittadini che non solo pagheranno le tariffe dei servizi offerti e ma anche le ricapitalizzazioni fatte (ogni anno) dagli enti locali per evitare i fallimenti delle “partecipate”.
La gente non si accorge che ogni volta che acquista un biglietto dell’autobus, lo paga il doppio (se non addirittura il triplo).

1 commento:

  1. Purtroppo la politica che rappresenta i cittadini, presente le cose sulla base della convenienza e non della responsabilità.

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